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La Corte d’Appello di Torino, con sentenza n. 150/2025 del 17 marzo, ha affrontato una fattispecie di particolare rilevanza in materia di rapporti di lavoro, con specifico riferimento alla legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente per condotte qualificabili come molestie sessuali in ambiente lavorativo.

Nel caso di specie, il prestatore d’opera aveva, nel corso di un evento conviviale organizzato in occasione del pensionamento di un collega e tenutosi all’interno del luogo di lavoro, posto in essere una condotta consapevole e non consensuale nei confronti di una collega, consistita in un abbraccio e in un bacio sulla bocca, oltre che nell’espressione di apprezzamenti verbali non consoni e sgraditi alla destinataria.

La Corte territoriale ha qualificato tale condotta come integrativa della tipica ipotesi di molestia sessuale, ai sensi dell’art. 26, comma 2, del D.lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità), rilevando come, dalla prospettiva datoriale, essa sia idonea a ledere in maniera irreversibile il vincolo fiduciario che deve necessariamente sussistere tra datore e lavoratore, legittimando, pertanto, l’adozione del provvedimento espulsivo per giusta causa, ex art. 2119 c.c.

Particolare interesse riveste altresì il profilo probatorio affrontato dalla Corte.

È stato affermato, con chiarezza, che nel processo civile la deposizione testimoniale resa dalla persona che allega di aver subito la molestia è di per sé idonea a costituire piena prova del fatto, non richiedendosi – a differenza del processo penale – alcuna necessaria corroborazione esterna. Detta posizione si fonda sul principio della libertà di valutazione del giudice civile ex art. 116 c.p.c., il quale può ritenere provato un fatto sulla base della sola testimonianza della parte che lo ha subito, laddove essa sia circostanziata, coerente e intrinsecamente credibile.

La pronuncia si distingue infine per un’importante riflessione sulla valutazione della condotta successiva della persona che riferisce di aver subito la molestia. La Corte ha escluso che eventuali ritardi o omissioni nelle reazioni della presunta vittima – come, nel caso esaminato, la mancata richiesta di aiuto nell’immediatezza, la denuncia avvenuta solo dopo alcuni giorni, la temporanea tolleranza dell’atteggiamento del collega e la momentanea permanenza da sola con lo stesso – possano, ex post, infirmare la veridicità dell’accadimento denunciato, qualora lo stesso risulti altrimenti provato, segnatamente tramite dichiarazione testimoniale attendibile.

A tal proposito, il Collegio ha richiamato l’esigenza di evitare approcci pregiudizialmente sfavorevoli nei confronti delle vittime di molestie, sottolineando come non esista un modello comportamentale tipico o “ideale” a cui le stesse debbano conformarsi per poter risultare credibili. La mancata reazione immediata o l’assenza di denuncia penale non costituiscono elementi di per sé idonei a escludere l’attendibilità del racconto, potendo tali atteggiamenti essere motivati da ragioni soggettive, quali la volontà di evitare ripercussioni, ulteriori disagi o lo stigma sociale.

La sentenza in commento si pone quindi come un rilevante precedente nell’elaborazione giurisprudenziale in tema di molestie sessuali sui luoghi di lavoro, consolidando principi di particolare importanza: da un lato, il riconoscimento della gravità delle condotte lesive della dignità personale e della libertà sessuale sul piano disciplinare; dall’altro, la valorizzazione della testimonianza della persona offesa quale strumento probatorio autonomamente idoneo a fondare la decisione giudiziale.