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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5936 del 6 marzo 2025, ha stabilito che un licenziamento disciplinare per aver inviato messaggi offensivi, denigratori, minatori e razzisti tramite WhatsApp a un team leader non costituisce giusta causa. La decisione riguarda il licenziamento di un lavoratore che, dopo aver registrato e inviato alcuni messaggi vocali con tali contenuti in una chat WhatsApp denominata “Amici di lavoro”, è stato licenziato per comportamento inadeguato. Alla chat, che comprendeva anche altri 13 colleghi, il lavoratore aveva inviato messaggi offensivi nei confronti del proprio superiore gerarchico.

La questione centrale della sentenza riguarda l’articolo 15 della Costituzione, che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. La Cassazione ha ricordato che, in base alla sentenza della Corte Costituzionale 170/2023, i messaggi inviati tramite applicazioni di messaggistica istantanea come WhatsApp sono protetti dalla stessa normativa, proprio come le comunicazioni tradizionali.

Nel caso in esame, la Corte ha affermato che il messaggio inviato dal lavoratore faceva parte della comunicazione privata tra un gruppo ristretto di persone, cioè i colleghi di lavoro, e quindi rientrava nella sfera di protezione garantita dall’articolo 15 della Costituzione. Nonostante il contenuto del messaggio fosse stato ritenuto inappropriato dalla società, la Cassazione ha sottolineato che la riservatezza della comunicazione era stata violata non dal messaggio in sé, ma dal fatto che una delle persone destinatarie del messaggio lo avesse reso noto al datore di lavoro.

La Corte ha concluso che il contenuto offensivo dei messaggi non può essere considerato una giusta causa di licenziamento, poiché la libertà e la segretezza delle comunicazioni private del lavoratore sono tutelate. Anche se la società è venuta a conoscenza del messaggio per iniziativa di uno dei destinatari, ciò non giustifica il licenziamento del dipendente, poiché il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro impedisce che la comunicazione privata possa essere utilizzata come motivo di licenziamento.

In sintesi, la Cassazione ha stabilito che, pur se il contenuto della comunicazione era considerato riprovevole, non può essere preso come base per un licenziamento, in quanto la libertà e la segretezza della corrispondenza privata del lavoratore sono diritti inviolabili.