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Accesso datoriale alla posta elettronica personale del lavoratore e limiti derivanti dalla tutela della vita privata e della corrispondenza

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24204 del 2025, ha ribadito un principio di rilievo sistematico in materia di rapporti di lavoro subordinato e di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore, affermando che l’accesso del datore di lavoro alla posta elettronica personale dei dipendenti non è consentito neppure quando sia finalizzato alla difesa in giudizio e anche nell’ipotesi in cui le comunicazioni siano state rinvenute sul server aziendale o sui personal computer in dotazione ai lavoratori. La Corte ha respinto l’impostazione secondo cui la titolarità dei sistemi informatici aziendali conferirebbe al datore un potere di controllo tale da rendere le comunicazioni elettroniche private dei lavoratori assimilabili a corrispondenza “aperta”. Secondo la Cassazione, infatti, la natura privatistica della posta elettronica personale non viene meno per il solo fatto che il lavoratore utilizzi strumenti aziendali, in quanto essa continua a costituire manifestazione della sfera personale e della vita privata, rientrante nell’ambito di protezione del diritto alla riservatezza e al segreto della corrispondenza, garantiti dall’articolo 15 della Costituzione e dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

È dirimente, secondo la Suprema Corte, la circostanza che le comunicazioni in questione provenissero da account di posta elettronica personale protetti da password, elemento che denota la volontà del titolare di limitarne l’accesso a terzi e che, di conseguenza, conferisce alle email il carattere di corrispondenza “chiusa”. Ne deriva che l’acquisizione di tali comunicazioni da parte del datore, anche se effettuata attraverso il server aziendale, costituisce violazione del diritto alla vita privata e alla segretezza della corrispondenza del lavoratore.

Nel caso concreto, il datore di lavoro aveva promosso azione giudiziale nei confronti di alcuni ex dipendenti, imputando loro atti di concorrenza sleale e violazione dei doveri di fedeltà e diligenza di cui all’articolo 2105 del codice civile, e a sostegno della domanda risarcitoria aveva prodotto una consulenza tecnica informatica contenente messaggi tratti dagli account personali dei lavoratori. Il giudice di primo grado aveva parzialmente accolto la domanda, condannando i convenuti al risarcimento del danno in misura pari alle ultime retribuzioni percepite, comprensive delle competenze di fine rapporto. Tuttavia, la Corte d’appello di Milano, riformando la decisione, ha ritenuto inutilizzabili le risultanze della consulenza informatica, sul presupposto che l’accesso agli account privati dei lavoratori, ancorché collocati su server aziendali, costituisse una lesione della sfera privata e del diritto alla corrispondenza. Tale impostazione è stata condivisa e confermata dalla Cassazione, la quale ha sottolineato che le comunicazioni dei lavoratori tramite account privati ricadono pienamente nelle nozioni di “vita privata” e “corrispondenza”, anche quando vengano trasmesse dai locali aziendali, con la conseguenza che esse non possono essere utilizzate a fini probatori in sede giudiziale.

Nel bilanciamento tra poteri datoriali di controllo e diritti fondamentali del lavoratore, la Corte ha richiamato i principi di proporzionalità e di trasparenza, i quali impongono che eventuali controlli vengano effettuati con modalità meno intrusive e previa adeguata informazione ai dipendenti. Il rispetto di tali limiti, che costituiscono presidio della riservatezza dei lavoratori, rappresenta condizione di legittimità per qualsiasi attività di monitoraggio o trattamento dei dati personali in ambito lavorativo. Laddove tali presupposti non risultino osservati, come nel caso di conservazione o acquisizione di dati relativi alla posta elettronica privata senza preventiva informazione o senza il consenso del lavoratore, il trattamento deve considerarsi illegittimo e in violazione delle disposizioni di cui all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, nonché del divieto di indagini sulle opinioni e sulla vita privata del dipendente sancito dall’articolo 8 del medesimo Statuto.

In conclusione, la sentenza in commento si pone nel solco di una giurisprudenza di legittimità sempre più attenta alla salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore, riaffermando che l’esercizio dei poteri datoriali, anche a fini difensivi, deve avvenire nel rispetto dei principi di proporzionalità, necessità e correttezza del trattamento dei dati personali, in conformità al quadro costituzionale e sovranazionale di tutela della dignità e della riservatezza della persona.