La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 4230 del 19 febbraio 2024, ha statuito che insultare il proprio superiore può costare il posto di lavoro; la Cassazione ha infatti giudicato legittimo il licenziamento per grave insubordinazione di un dipendente che aveva rivolto ingiurie e minacce a un proprio superiore.
Nel caso esaminato dalla Corte, una lavoratrice era stata licenziata per aver proferito insulti pesanti e minacce, sul luogo di lavoro, nei confronti di una collega sovraordinata, salvo poi vedersi inizialmente reintegrare in servizio e indennizzare dal Tribunale cui si era rivolta per impugnare il recesso, con pronuncia poi confermata dalla Corte d’Appello di Bologna in fase di reclamo ex lege 92/2012.
In particolare, la Corte bolognese - sebbene avesse affermato la rilevanza disciplinare della contestazione datoriale formulata alla dipendente e consistente appunto nell’aver pronunciato offese e minacce a un superiore - aveva però escluso che queste ultime avessero un «minimo di potenzialità intimidatoria oggettiva» anche in virtù della mancanza di «alcun precedente di condotta violenta», e aveva quindi concluso anch’essa per la tutela reintegratoria, sussumendo tale comportamento nell’ambito di una mera «insubordinazione verso i superiori».
Insubordinazione che, secondo il contratto collettivo applicato in questo caso, avrebbe dovuto essere punita con una sanzione conservativa, non ricorrendo l’elemento della “gravità” della insubordinazione che lo stesso contratto prevedeva come necessario, per poter legittimamente irrogare un licenziamento disciplinare.
La Cassazione ha invece ritenuto che il contegno della lavoratrice integrasse grave insubordinazione e fosse quindi meritevole della sanzione espulsiva comminatale e ciò mediante motivazione analitica e ricostruttiva dei principi di diritto che regolano la materia.
I giudici di legittimità hanno infatti rammentato che:
1) La contrattazione collettiva non vincola in senso sfavorevole al dipendente e pertanto, anche quando sia riscontrata la corrispondenza della condotta del lavoratore alla fattispecie tipizzata dal contratto collettivo come ipotesi che giustifichi il licenziamento disciplinare, stante la fonte legale della nozione di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, è comunque necessario effettuare un accertamento in concreto della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra la punizione e l’infrazione, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale, tenendo conto della gravità del contegno del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo.
2) Dalla natura legale della nozione deriva altresì che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla capacità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del dipendente contrario alle norme della comune etica o del vivere civile, di far venir meno il rapporto fiduciario con il datore.
3) La contrattazione collettiva vincola in senso favorevole al lavoratore. Ove, stando alle previsioni del contratto collettivo, la condotta ascritta quale causa del licenziamento sia contemplata come infrazione sanzionabile con misura conservativa, il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quello specifico comportamento effettuata dall’autonomia collettiva.
4) Le disposizioni dei codici disciplinari contenute nei contratti costituiscono parametro integrativo della clausola generale di fonte legale configurata dalla giusta causa o dal giustificato motivo soggettivo di recesso, perché con esse le parti sociali individuano il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli articoli 2104 e 2105 del Codice civile in un determinato momento storico e in uno specifico contesto aziendale.
5) Il procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta di cui al contratto non consente tale operazione logica quando la condotta del lavoratore sia connotata da elementi aggiuntivi, estranei e aggravanti rispetto alla disposizione contrattuale ed è quindi insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato sia riconducibile alle disposizioni del contratto collettivo, essendo sempre doveroso valutare in concreto se la condotta tenuta, per la sua gravità, sia tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro e ciò con particolare attenzione al comportamento del dipendente che indichi una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.